La narrazione del tumore e di chi lo ha
Ho pensato molto se affrontare o meno questo tema. Per un mio pudore: come posso parlare di qualcosa che non vivo in prima persona?
Poi mi sono detta che invece posso, anche e soprattutto perché lo devo a chi conosco ed ho conosciuto.
Lo sprone me lo dà ovviamente la lunga intervista che Michela Murgia ha rilasciato ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Intervista che la mia migliore amica (lo so è un termine molto da boomer, ma quello sono) mi ha inoltrato sabato scorso chiedendomi cosa ne pensassi.
Penso che sia un’intervista estremamente politica, nella quale lei lancia moltissimi messaggi. Si arroga anche il fatto di aver supplito, assieme ad altri scrittori, ad una mancanza della sinistra che adesso grazie all’arrivo taumaturgico di Elly Schlein si sarebbe finalmente risolta e già questo meriterebbe un approfondimento a parte.
Ma il tema di cui voglio parlare è un altro, ovvero il tumore.
Dice Murgia di non riconoscersi nel registro bellico: «Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere».
La mia amica ha vissuto malissimo queste parole.
Come puoi definire gentile qualcosa che cresce dentro di te, sicuramente in modo silenzioso, ma che finisce poi spesso per devastarti ed ucciderti?
Perchè è vero che ognuno affronta la malattia a modo suo, ma tutte le persone colpite da un tumore che conosco lottano strenuamente per sdradicarlo. Non vogliamo usare termini bellici? Usiamoli agricoli, usiamoli medici, ma rimane che è una lotta contro una parte di te impazzita.
Mia suocera è morta poco tempo fa a 93 anni, da anni lottava tenacemente contro due tumori, di cui uno al polmone che alla fine ha avuto la meglio su di lei. L’ha uccisa non gentilmente, rubandole un po’ di aria dai polmoni giorno dopo giorno. Ma lei non si è mai arresa, faceva progetti e si incazzava perché non voleva credere che non ci fosse un modo per intervenire, per regalarle un altro po’ di tempo dignitoso. Si incazzava con i medici, con una sanità che lascia gli anziani a carico delle famiglie, vedendoci arrabattarci per seguirla, portarla alle visite (una paziente oncologica di oltre 90 anni deve recarsi personalmente in ospedale). Arrabbiandosi in epoca pandemica quando le visite e gli esami si sono diradati. Quando le dicevano che non la volevano operare perché troppo anziana.
Per questo trovo il messaggio di Michela Murgia sbagliato, in fondo irritante.
Come lo ha trovato la mia amica, che combatte quotidianamente (non so trovare un termine diverso), districandosi tra lavoro, famiglia, esami clinici e visite. Sentendosi dire che la protesi al seno che le dà fastidio “non è scaduta” e quindi il SSN non gliela cambia. Ha superato un secondo tumore al polmone, per il quale gliene hanno tolto un pezzo. E lei, ostinatamente, fa anche attività fisica per recuperare quel “fiato” che un po’ ha perso. Rimane nonostante tutto questo la persona più empatica che io conosca, sempre pronta a farsi carico dei problemi degli altri. Allegra, entusiasta, non sta mai ferma e non si arrende mai, anche se di colpi la vita gliene ha riservati tanti.
Lei non ama la narrazione degli eroi che talvolta noi giornalisti usiamo per parlare di chi supera un qualche stadio della malattia. Non la ama perché, e su questo concorda con un passaggio di Murgia, spesso la differenza tra farcela e non farcela è questione di fortuna, di diagnosi tempestive e corrette, di analisi puntuali. Ma non vuole neanche sentir dire, e su questo mia suocera sarebbe stata d’accordo, che il cancro è lei o che è un prezzo da pagare per essere speciale.
Lei non vuole essere speciale, lei vuole solo vivere bene la propria vita e non si arrenderà mai.
E dice che la differenza la fanno prevenzione e cura, quindi non può e non deve passare il messaggio di abbracciare il tumore come un amico.
Ognuno è libero di vivere come vuole, ma se è un personaggio famoso la cui opinione può essere influente, questo tipo di atteggiamento può essere veramente dannoso.


Daniela
Articolo bellissimo, io la tua migliore amica fortunatamente l’ho avuta come collega per 11 anni e non ci siamo perse di vista, anzi, continuiamo a sentirci ed a volte a vederci.